31/03/16

Origin story

"I'm like a dog wif no legs, u'll find me where u left me"
Ninja, Hey Sexy




Quando ero un adolescente avevo idee luminose, con bordi taglienti, e uno spazio mentale reso lucido dalla mancanza totale di prospettive, o almeno è così che la ricordo adesso.
All'epoca, scrivere mi sembrava naturale, come respirare. Un'esigenza basilare, indiscussa. Leggere e scrivere, la circolazione dei flussi emotivi e delle idee in una Bestia Umana eterna ed immortale, incurante delle meschinità e della frustrazione, capace di far penetrare il suo ruggito immenso nelle pieghe di una lentezza informe.

Una forma di masturbazione onestamente non più originale di altre, nutrita nell'isolamento astioso e in letture crudeli. Senza maestri, senza compagni, libero di affratellarmi ai giganti, inevitabilmente ferito e disgustato nel trovarli poi in giro, accompagnarsi ad altri. Che altri avessero letto Nietzsche: un affronto. Che altri lo avessero capito: una inaccettabile bestemmia.

Ed ecco la radice della prima torsione. Scrivere per chi? La paura dell'incomprensione è banale, è un riflesso pallido del reale terrore, quello di essere capito e non essere in fondo niente di speciale. Fame di sintagma, sete di eternità, come possono venire a patti con lo scenario della provincia? Scrivere come se si fosse altro, come se si fosse altrove. Leggere e scrivere come respirare aria differente.

Immaginammo un cortometraggio, una volta, insieme al vecchio Renton, un amico di sentimenti simili solo in parte, ora assorbito in una carriera brillante, laureato di lusso in giurisprudenza. Un giovane - inevitabile cercare l'autobiografia quando non la si può gestire. Inevitabilmente, appena ci si conosce un po', il racconto perde il suo fascino - percorreva le strade della nostra cittadina provinciale. Si fermava a contemplare un fiumiciattolo sperduto, passeggiava fra i muri sbrecciati di un mastodontico residuato dell'era industriale, lungo un muro di costruzione etrusca. Fra le acque luride, fra i residui enigmatici ammonticchiati negli angoli, negli anfratti dei pietroni a secco trovava segnali, riceveva messaggi iniziatici, raggiungendo infine la realizzazione dell'irrealtà di tutto il contorno.

A posteriori, la faccenda è chiara: il senso di estraneità si trasforma in desiderio di un altrove che non è semplicemente altro, ma oltre. Non ci(mi) sarebbe bastato andarmene: cercavo invece la trasfigurazione. La verità, al suo apparire, avrebbe reso ridicolo e meschino ciò che fino ad allora era inevitabile e stolidamente reale. La menzogna si scioglie come neve al sole. La stupidità sparisce.

Inevitabile, con il senno di poi, la fascinazione esercitata dall'Ideale, nei suoi aspetti multipli: il Nirvana, il Sogno che si prende la sua rivincita sulla realtà, la Rivoluzione che sorge a vendicare e riscrivere il destino dell'umanità, la Filosofia che scopre le carte. Eccomi, dunque, a diciassette anni: comunista senza un Partito, dadaista senza Internazionale, buddhista senza Sangha, lettore avido di filosofia, messo sull'avviso prima ancora di un qualunque contatto dei pericoli dell'accademismo, impegnato a costruire sette immaginarie (vi ho mai parlato della Fazione Armata Spinozista?)

Chiuso nell'empasse, scrivevo nonostante me, nonostante loro. Non perdonavo alle persone intorno a me l'essere solo ciò che erano, la mancanza di vocazione eroica. Frequentavo i più strani, i sognatori e i perversi. Ero presuntuoso, arrogante, impaziente, sciocco, convinto di sapere ciò che non sapevo. Mi perdono pensando che questi difetti, tipici dell'autodidatta, prevengono le condizioni della propria correzione, condizioni che richiedono un Maestro.

Il resto della storia è banale, forse. All'uscita dalla scuola dell'obbligo non ero confuso, eppure non sapevo rispondere alle domande che mi erano poste. Avrei voluto, anzi, prenderle e scuoterle. Nella mia acerba sicurezza, non ero capace di dire ciò che provavo: che avrei preferito chiedermi cosa fare del mondo, piuttosto che cosa fare di me. Che cos'ero infatti io, se non il tentativo reiterato di sottrarmi all'integrazione in uno scenario repellente? Che cosa, se non un repertorio di nascondimenti, evitamenti, sotterfugi, doppi sensi? Come avrei potuto rispondere ad una domanda che implicava surrettiziamente la direzione inversa a quella di ogni mio sforzo?

Io avrei voluto morire per la causa (quale, poi? Le idee al riguardo erano assai complesse, come ancora lo sono), e mi si chiedeva di vivere per uno stipendio. Avrei potuto forse cedere, se l'alternativa fosse stata semplice, ma non lo era. Scelsi la filosofia, iscrivendomi in una città diversa dalla mia. Entrai in un collettivo, come era inevitabile. Presi ciò che potevo: un po' di buone letture, il calore di fare parte di qualcosa, le amicizie sincere che solo l'ovattata cesura universitaria può ospitare in una piccola città della toscana. Aspettavo qualcosa, ma cosa? Chiacchierando, mi vantavo di progetti grandiosi mai realizzati.

Uno di questi era un romanzo, intitolato con dubbia originalità "0".
Parlava di una periferia industriale agitata da una sommossa, gruppuscoli anarchici impegnati in lotte intestine. Parlava di ingegneria sociale, di amore, di morte... il solito insomma. finii per tenerci talmente tanto che mi era doloroso scrivere.
(Smettere di scrivere, come smettere di respirare. Vivere in apnea, abbandonati ormai dalla meravigliosa bestia dell'illuminazione, incapace di cogliere l'eco del suo ruggito.)

Poi l'Irlanda. Freddo, disgustoso isolamento. Fra le altre cose, trovarsi davanti per la prima volta l'università come istituzione funzionale alla diffusione, amplificazione e capillarizzazione delle dinamiche capitaliste.
Fino a quel momento, per me università era il nome di un relitto, una tradizione tenace, insensata eppure incapace di morire, che ancora ostinatamente oppone le sue distribuzioni di potere filiativo e clientelare ai nuclei ugualmente deboli e morenti di potere filiativo e clientelare al suo esterno.
Nel passaggio da dentro a fuori, trovai un incremento vertiginoso di pragmatismo, di capacità tecnica-organizzativa. Ognuno degli enigmi gelosamente custoditi in uffici misteriosi, ogni alzata di spalle "eh, che ci vuole fare, è l'italia" era sparita. Tutto era alla luce del sole. Eppure, ogni cosa era vuota.

Eliminate le contraddizioni, non restava spazio neppure per quelle forme di rimessa, gli spazi carsici dell'Ideale nel deserto della realtà. Il problema si espandeva smisurandosi. Lo spazio iniziatico non era più disponibile. Cominciai a leggere Deleuze, Debord, i francofortesi. La letteratura a disposizione era anni luce avanti a quella circolante di norma in Italia(1), ma gli studenti leggevano perlopiù senza passione, senza urgenza. Non avevano il terribile sospetto che affila i nervi: di alienarsi sempre di più, andando avanti. Di pagare cara l'intelligenza, rendendosi insopportabile lo spettacolo barocco e permanente del potere, i residuati tribali. Di doversi nascondere, per non suscitare il sospetto dell'Ignoranza Sovrana, la ringhiosa reazione del Potere Analfabeta.

E poi il ritorno. E Torino. La meravigliosa Torino, in cui finalmente i compagni hanno chiari i termini dell'equazione. Migliaia di chilometri dallo stordimento provinciale, dalla quieta accettazione dell'esistente. Reazioni! Discutibili, volgari, intelligenti, sperimentali. Ovviamente, vanità e superficialità. Ovviamente: pose intellettuali e ricercata affettazione.
Per la prima volta, una serie di mitologie personali tornavano a deridermi sotto forma di persone e cose, reali. Non immagini. Non il ruggito della Bestia, non una trasfigurazione, ma una resistenza sorda e continua, carne e sangue e tanfo, e tutti i pericoli, le compromissioni, la realissima realtà. E' a torino che trovo un Maestro, che si rifiuta di dirmi in cosa credere e sbriciola le traiettorie troppo semplici. Un Maestro che chiude le porte, spezza i voli, taglia le illusioni e introduce sua maestà Il Concetto come se fosse sempre stato lì, come se non potesse essere ucciso. Non so dire la gioia e il dolore, il tempo troppo vicino non può più essere raccontato.

Ed è a Torino che comincio a scrivere per qualcuno. Voglio capire, e voglio che capire serva. Voglio sottolineare le crepe, trovare i buchi. Ma non voglio essere io a farlo: per troppo tempo ho vissuto del residuo delle mie parole, trovato una rassicurante identità nelle pieghe di ciò che altri, mi illudo, non possono capire.
E' a Torino che comincio a desiderare la Claredo. Ed è forse sempre la stessa cosa: la Rivoluzione personale che è il Nirvana, il Nirvana collettivo che è la Rivoluzione, il sogno che è Realtà Rivoluzionaria... eppure lo voglio sul terreno. Mi vergogno della riduzione, dell'astrazione dei tentativi precedenti. Se bisogna parlare, bisogna farlo con la lingua. Se occorre scrivere, bisognerà farlo per l'amico. la Verità è una Bestia troppo enorme per infilzarla d'un colpo. Occorrerà prima di tutto essere sinceri.

E poi il ritorno, che cancella ogni illusione. Pesato, misurato, trovato mancante: una ulteriore e magnifica lezione di quel che significa la disparità fra l'immagine artefatta di se, a proprio uso e consumo, e la serie infinita degli esseri umani che ci include come variazione minima. La tentazione di rigettare la prima o la seconda.
Ancora, di questo non parlo se non in modo obliquo.
Il ritorno, nella piccola città antica. Il ritorno, le facce vecchie e le facce nuove. Nessun modo per spiegare, per raccontare cos'è successo. Un salto indietro di dieci anni, a quando la realtà era scollata, divisa in due: fuori e dentro la testa.
E ironicamente, tutto si ripropone: la lontananza ha creato di fatto una alterità che forse prima era solo un desiderio.

Il tentativo di scrivere si inaridisce. Torna inavvertita l'afasia. I tentativi di mandare avanti Crepe sono velleitari, muti. L'incomprensione e la comprensione. I vecchi problemi...

E poi, ecco, oggi mi sono svegliato, e volevo dirvi che cosa mi passa per la testa, e ricapitolare tutto, e capire io per primo da dove mi viene il prurito sui polpastrelli.
Perché scrivere è come grattarsi. Inutile. privato. Indecente. Necessario.

Lorenzo

(1) Per "di norma" si intendono unicamente i limiti della mia scarsa esperienza all'epoca.

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