12/07/18

The Human Innards Of The Flying Saucer

Il controllo FS tace. Nessun blip, blop, glitch o altra stranezza percorre il quadrante. Il rumore bianco di pianeti lontani, filtrato dal gigantesco Apparato Riproduzione ed Analisi di Base, si diffondeva nell'aria consumata dello spazio abitabile all'interno del Sistema Uno.
Dal momento che non c'è abbastanza spazio per stare sdraiati, sdraiati davvero, dico, con le braccia allungate e le gambe divaricate, e la schiena dritta, e il collo esteso, Luis se ne sta nella più prossima posizione di riposo disponibile, stendicchiato sull'imbottitura interna della struttura rotante semisferica che gli serve da letto, da sedia, da poltrona.

La gente normale - pensa - dorme.
Si mettono giù, obbediscono ad una gravità imponente, centrale, e dormono, cedono il peso alla terra e lasciano che il sistema nervoso centrale si sganci.
Che pensiero assurdo.
Da tempo, ormai, Luis non sogna più. Non consapevolmente, almeno.
Lo spazio, il tempo: sempre lo stesso luogo, niente bagno, niente cucina, niente biblioteca, niente camera da letto. Le luci, le piccole luci fisse, sui quadranti del sistema ARAB, piantate come fari nel suo proprio inconscio.
Da tempo, ormai, Luis non è certo di essere mai completamente sveglio. Niente alba, niente tramonto. Niente pranzo, niente cena.

Non fa bene, questo, pensò. Chissà, quanto tempo è passato.
La mente-scimmia, quella roba che un tempo aveva lottato per la propria coerenza interna nel marasma evolutivo della foresta archetipica, lottava ancora per mantenere una qualche forma di indipendenza.
Da tempo, tuttavia, la battaglia è persa. La semplice, omogenea permanenza della simbiosi con il Sistema Uno la indebolisce lentamente, inesorabilmente.
Il problema, pensa Luis, è la pelle.
La pelle dovrebbe essere il limite. Omeostasi dentro, variazione fuori.
Ma la pelle del Sistema Uno è acciaio supertemprato, capace di tagliare i campi cosmici, e l'omeostasi interna è quasi perfetta. Temperatura, nutrimento. Il sistema digerente, collegato a quello del Sistema Uno in un circuito chiuso, autoreplicato. Le scorte, sempre identiche a se stesse.
Né fame né sonno.
Né alba né tramonto.

La psicologia del viaggio spaziale è simile a quella del profondo. Il vero rischio, è che l'essere umano sprofondi, transustanziato in una strana nuova bestia, incapace di riconoscere il limite fra l'animale preistorico e il dispositivo.
Che cos'è la fame? Si chiede all'improvviso Luis. Porta sullo stomaco la mano, scarna, ossa rose dalla gravità ridotta, pelle maculata dalla mancanza di sole, dalla circolazione rallentata.
Si sorprende della propria leggerezza, di nuovo: è dimagrito? Perché?
Non pensava da tempo al cibo. Tasta il piccolo tubo che gli infila le razioni M direttamente nello stomaco. poi segue il percorso dell'esofago: dovrebbe essersi completamente chiuso a questo punto. Da quanto tempo non deglutisce?

Alza gli occhi. Il cielo è d'alabastro. Il sole, lontanissimo, blu-radioso. Era un sogno, quello? Che strano. Il Sistema-Uno, agganciato al suo sistema limbico, avrebbe dovuto distruggere completamente la sua capacità di sognare.
Eppure: quello doveva essere un sogno. Cosa ancora più strana: Luis se ne rendeva perfettamente conto.
Abbassò gli occhi - ma lo stava facendo davvero? - e contemplò la pianura. La quantità di spazio gli fece subito venire le vertigini. Si possono avere le vertigini, in un sogno? La pianura, ricoperta di vegetazione bassa, di un colore biondo pallidissimo, era ampia e lunga, e al termine disegnava un confine netto e pulito con il cielo. Si intravedevano appena, più in là, ombre che avrebbero potuto essere quelle di una catena montuosa, persa nella rifrazione dell'atmosfera.
Forse, pensa, laggiù qualcuno è vivo.
Forse un essere umano!

Sveglia. Sveglia. Qualcosa trilla, scuote, qualcosa fischia, qualcosa pulsa, nello Spazio-uno. Sveglia.
Luis non dorme più. L'atmosfera. La pianura. Riesce ancora, per un attimo, a trattenere la sensazione del vento contro la pelle. A trattenere l'immagine di una montagna, lontanissima, ombra azzurra contro azzurro.
Esplorazione, ecco. Luis è un Esploratore, dicono.
Ma non ha spazio, non ha tempo, non ha corpo.
Ingoiato. Ingoiato vivo, e digerito, piano piano.
Imploratore, corpo-macchina, spazio nullo. Solo silenzio e morte fuori dalla pelle del Sistema-uno.
E ora? Qualcosa trilla, scuote. Un battito, un tonfo.
Suoni alieni, forse. Gli strumenti di controllo emettono gemiti. ARAB sputa stringhe alfanumeriche su tutti i monitor, e poi immagini: una sagoma scura, ovoidale.
Arrembaggio? Incontro ravvicinato?
Chissà se si ricorda come si fa a provare paura, o dolore...
Poi se lo ricorda.
Il sistema ARAB segue la procedure di emergenza, e gli spegne il flusso di antidepressivi-antidolorifici-antipsicotici regolamentari. Il Gancio Limbico si ritrae dal sistema centrale. L'essere di nuovo umano, urla di dolore, angoscia e panico.
Qualcosa preme contro la pelle del Sistema-Uno. Qualcosa. Inconcepibile orrore, qualcosa che arriva da FUORI, angoscia della penetrazione, della ferita. E poi rabbia, desiderio di annientamento. Cerca il comparto delle Armi. Il Sistema-uno risponde alle sue direttive emotive, le asseconda, lo riempie di Anfe sintetica da guerra.
"Siamo venuti a salvarti"
Non li sente, no. Figure bozzute, spesse, avvolte in involucri ermetici. Movimenti goffi. Alieni. Penetrazione. Morte.
Prova ad urlare: dalla gola ormai secca esce un rantolo appena, le corde vocali non vibrano a dovere. Dalla pistola, tuttavia, parte un unico proiettile, appena prima che il rinculo gli spezzi il braccio in due punti. Attraversa l'aria consumata, l'involucro, la pelle, il cranio.
"Siamo venuti a salvarti".
Che significa?
L'umano trema. Aiuto, aiuto. Il sistema digerente vorrebbe vomitare, torcersi, se non fosse chiuso, ormai obsoleto.
Il sistema controllo emotivo corregge automaticamente la deviazione dei parametri. Sedativi vari, i muscoli si rilassano, si fanno molli. Il dolore al braccio scompare.
La pianura è immensa. E forse sulle montagne, laggiù, qualcuno è vivo.




11/07/18

"I'll hit it so fast that their eyes water"



Presi negli ingranaggi di una insolita Storia, andavamo avanti un po' a tentoni.
Secondo Luis, la colpa era tutta del solito Governo, e in seconda battuta della Gente che avrebbe votato il Suddetto. La sua disperazione era teterrima e rancorosa. La faccia, accartocciata inorno a quell'unico, profondissimo taglio verticale alla base del naso, dove le sopracciglia si premevano insieme.
Secondo il Secco, non c'era da prendersela tanto: le cose sarebbero cambiate, e in fondo cambiavano sempre. Un po' di merda, si sa, piove, ma non per sempre, mai per sempre. Sarebbe bastato aspettare che ciò che non riuscivamo a controllare si mettesse a posto da se, e nel frattempo sopravvivere, non farsi il sangue amaro, o il fegato grosso.
Il Biondo, forse, era quello che se la passava peggio di tutti. Di noi, era forse il più astuto, e di certo il più resistente, e forse proprio questi erano i difetti peggiori. Come amava ripetere, si era fatto da solo, aveva scavato a furia di denti e unghie uno spazio nel mondo che avesse la forma della sua vita, e ne era fiero. Eppure, eccolo, rinchiuso in un attico ingombro e puzzolente, un altro abusivo fra abusivi, costretto ad ascoltare le inutili e lunghissime litanie di recriminazioni di Luis, a respirare di seconda mano il fumo che si sollevava in dense volute dalle canne di pessima qualità del Secco.
E allora? L'eroismo del biondo non poteva permettergli scorciatoie: nel suo sguardo lugubre si leggeva la forma più onesta e acre di violenza, il circuito chiuso della crudeltà. Il biondo non si sentiva tradito, né sfortunato. Il Biondo si sentiva addosso la puzza del fallimento, e passava i giorni e le ore a ripercorrere i propri passi, a chiedersi dove, come, avesse sbagliato qualcosa, dove tutto fosse andato storto.
Col tempo, la situazione si sarebbe guastata, lo sapevo: se a suo modo il Secco galleggiava, e si perdeva volentieri nella deriva dell'immaginazione, e Luis invece articolava di sempre maggiori dettagli la gabbia della propria paranoia, mai sfogata in azioni particolari, il Biondo mi preoccupava decisamente di più. Lo vedevo girare a vite, infilarsi nel buco del proprio inconscio, e scavare, e scavare, e chissà quando - mi chiedevo - la gravità lo avrebbe acchiappato così fortemente da non permettergli di uscirne mai più.
Un vero peccato, pensai. E poi mi sembrò di essere diventato appena appena più leggero, mentre spegnevo la sigaretta nel posacenere sul davanzare, e gettavo un'ultimo sguardo all'orizzonte urbano, distesa di volumi incongrui ed enormi distese vuote, inabitabili, favo di celle monofamiliari, ognuna carica di testimoni della Meravigliosa Ultima Epoca della specie Umana.
Chissà, forse sarebbe stato meglio per loro, abbandonare ogni speranza, ogni peso. Decidere di abbandonarsi alla natura-buddha, alla realizzazione della Vacuità Completa. Forse. Ma a che scopo? Una forma di ironia ancora più sublime li avrebbe giocati, nel mondo in cui l'apocalisse dell'Umano non aveva bisogno di passare per il fondo cosmico della coscienza, ma piuttosto per l'accelerazione inarrestabile dei rapporti di produzione.
Niente, baby. La bomba atomica, come diceva quel filosofastro schiumante, è l'ultimo Maestro Zen, eppure allo stesso tempo è la fine dello Zen.
E io? Non mi ero sforzato più di tanto, fra reazioni e razionalizzazioni. Di base, forse ero un po' simile al Secco, al suo taoismo immediato. Prima, certo, avevo coltivato ambizioni, prima di capire. Avevo sognato di emergere dalla melma dell'Umanità Comune, di espandere in onde concentriche la mia influenza galvanizzante sul Mondo Circostante, eccetera. E mentre pensavo queste cose, seguendo il filo sgranato dei pensieri lungo le formazioni psichiche sedimentate ed erose nel corso degli Anni Duri, accesi un'altra sigaretta, senza accorgermene quasi, la mano destra che percorre da sola la serie automatica dei movimenti, inavvertiti. La fiamma mi colse quasi di sorpresa. Sollevai gli occhi, mettendo per la prima volta a fuoco la stanza in penombra, malinconicamente riempita di scialbe sagome dalla luce opaca del tardo pomeriggio nell'atmosfera torbida della metropoli.
Ai margini dell'aggettivazione, stava il Biondo, con un coltello.

"Io", disse, "M'ammazzo".