30/05/14

Parla più forte

L'altro giorno, mentre parlavamo di tutt'altro, di punto in bianco ho detto ad un amico: "sai? Forse apro un blog".
La risposta è stata: "Eh? parla più forte, non ti sento" ed io mi sono accorto che in effetti, rispetto alla conversazione precedente avevo abbassato la voce, mi ero coperto la bocca con la mano e persino messo a spiare sospettoso gli altri presenti (dacché la conversazione avveniva aspettando in fila per un panino arrosto e patate).
Subito mi sono chiesto: perché già solo al pensiero di una pagina su internet il mio corpo si dispone all'atteggiamento della vergogna?
Con una astuta tattica discorsiva ho fatto cadere l'argomento, ma in un angolo alla periferia est del mio cervello una rotellina solitaria si era già messa in moto, ed avrebbe continuato a girare indisturbata mentre io facevo tutt'altro, per giorni e settimane, fino a che, quasi all'improvviso, il motivo mi è venuto in mente, ed era tanto sciocco che mi sono vergognato di nuovo.

(nella foto: una patata, l'ortaggio simbolo della stupidità)


Mi vergognavo a dire "apro un blog" ad alta voce perché sapevo benissimo che cosa avrebbero pensato tutti gli altri (in realtà, cosa NON avrebbero pensato, perché al netto della mia paranoia sociale sono sicuro fossero tutti concentrati sugli ottimi panini arrosto e patate e sui propri sommovimenti gastrici alla vista delle stesse).
Diciamolo chiaramente: i motivi per cui un giovane adulto frustrato ed iperscolarizzato apre un blog non sono in genere lodevoli. Si tratta di esibizionismo, oppure di sfogo, oppure un tentativo velleitario di acchiappare per la coda un lavoro nel campo dell'immateriale, oggi più che mai arido. Si tratta della presunzione di scuotere le coscienze, oppure del cinismo di farci dei soldi.

nella foto: soldi. Necessari ma non sufficienti per la vita umana.

Nel migliore dei casi, tuttavia si apre un blog perché si ha "qualcosa da dire". Che significa: "avere qualcosa da dire"? E perché lo metto fra virgolette insistentemente?
Perché quando qualcuno dice di avere "qualcosa da dire" in genere si sta fraintendendo da se, e quello che vorrebbe veramente  dire con questa parola non ha niente a che fare con una cosa, con un qualche pensiero, o idea, o storia che preme da dentro per farsi strada fino alla tastiera, e da lì ad una paginetta su internet (e poi, chissà, alla conquista del mondo).
Per avere un'idea, un'idea vera, ci vuole tempo. Spazio. Tranquillità fuori e bruciante sommovimento dentro. Un sacco di materiale grezzo da cui partire. La percezione di un orizzonte problematico ampio. L'ambizione di riempirlo o quantomeno di percorrerlo. Tanta sofferenza. E se si è particolarmente fortunati (la parola "talento" segnala proprio questo elemento ulteriore di cui non si sa nulla se non che c'è o non c'è) si finisce per partorire qualcosa.

Ludwig Wittgenstein

Quasi nessuno che io conosca fa una vita adatta a questo particolare stato d'animo, che conosciamo ormai quasi solo dalla rappresentazione cinematografica o letteraria, e purtroppo in genere quei pochi esseri umani capaci di avere idee se ne stanno nascosti. Sanno benissimo che capire le idee è faticoso, ed in questi tempi veloci e voraci la gente risponde con ostilità alla fatica. Sanno benissimo che la loro migliore probabilità di sopravvivere è costruire ambienti protetti, piccole riserve indiane negli angoli più sperduti delle biblioteche e delle accademie. Accontentarsi di un lavoro marginale, così da non suscitare invidie accademiche (alcuni accademici, con un istinto perverso ancora più pericoloso dell'antiintellettualismo di destra, si sentono attivamente minacciati dalle idee. In più, hanno una grande varietà di strumenti intellettuali per smontarle, decostruirle, neutralizzarle, deriderle. Si potrebbe persino dire che in ciò consiste il loro lavoro.)
Insomma: nessuno che abbia delle idee ha un blog, in genere. Può capitare che ci scriva, occasionalmente. Esistono blog di idee. Ma di solito richiedono un individuo con un certo fiuto il cui lavoro consiste nell'andare di qua e di la a chiedere contributi ad oscuri cervelluti, che poi se ne tornano subito dopo nei loro antri. Oppure un piccolo gruppo di onesti trascrittori che compendiano ad uso dei lettori le grandi idee del passato.

Epigono vorace

E dunque? Che cosa significa avere "qualcosa da dire"? Non può essere così raro: dopo tutto, non è forse vero che TUTTI hanno qualcosa da dire? Ci si rende conto immediatamente, in qualsiasi sezione commenti, che in realtà (passatemi il neologismo) tutti hanno qualcome da dire. 
Mi spiego: nella generale insoddisfazione che pervade la società industriale avanzata (insoddisfazione niente affatto casuale, anzi necessaria a farci correre tutti come criceti sulla ruota della produzione-consumo, che come si sa deve girare) una particolare gestione della vita emotiva si fa strada, e si fa sentire. Davanti al proprio computer, migliaia di esseri umani che vivono quasi esclusivamente non-luoghi (Il traffico. L'ufficio. La mensa. L'ufficio. Il traffico. Il club.) intraprendono il compito colossale di preservare la propria salute mentale replicando (quanto meno nella forma fantasmatica del net) tutta la serie di complesse dinamiche sociali senza le quali questo nostro obsoleto sistema psichico se ne andrebbe a rotoli.
E dunque: si cerca nella rete complicità, cameratismo oppure seduzione. Si esprime aggressività. Si pontifica. Si adula. Si adora. Ci si schiera. Si stabiliscono con innumerevoli altri assenti fisicamente le relazioni che non trovano più spazio fuori. Poi si esce e si incontrano solo corpi: nelle metropolitane stipate il contatto oculare è un tabu. La presenza ossessiva dei corpi è compensata dall'assenza emotiva, nel clima dominante di leggero fastidio che permea tutto.

Metropolitana

Purtroppo, sulla rete ognuno è ridotto a linguaggio, ed il linguaggio fatica ad assorbire tutto quel succo emotivo che ha abbandonato i corpi. Si deforma, si trasforma, e mentre diventa sempre più efficace ad incorporare le sfumature della relazione fra chi parla e chi ascolta, perde in semantica.
Internet è un guazzabuglio immane in cui il legittimo desiderio di affetto, di potere, la rabbia, la nostalgia, la speranza sono più importanti del significato delle parole. E allora comunità la cui solidarietà è reale, i cui sentimenti sono concreti, i cui incontri sono più veri di quelli dei passanti per le strade di una grande città (che si limitano ad incrociarsi) si impegnano incessantemente nell'unica attività di riempirsi gli uni gli altri di cazzate.
Vi stupite della fede nei rettiliani? Per quale motivo?
Non è forse rassicurante trovare un responsabile unico (per di più non umano, e quindi legittimamente odioso) cui dare la colpa della propria condizione? Non è forse fortemente sconsigliabile prendersela direttamente con i responsabili tangibili in prima persona, con il capo al lavoro o col padrone di casa? E allora inventare un alieno è solo la strategia emotivamente più efficace per uscire dall'empasse. In più, sui siti dedicati, si ha la possibilità di chiacchierare ore con altri esseri umani che si preoccupano gli uni per gli altri, trovare una solidarietà, una comprensione: in pratica degli amici. E' forse sbagliato?
No. Ma non si può negare sia pericoloso.
Perché le parole hanno comunque un senso. E quelle parole che circolano come palline di un flipper rimbalzando ovunque nella rete per provocare un sorriso, per mobilitare rivalità o convogliare ansia, sono le stesse che dovremmo usare per pensare. E me le state sbrindellando tutte.



E finalmente parliamo di questo blog, e di quello che dovrebbe fare: questo blog serve (nella mia immaginazione, per ora) come un colino. Come un setaccio. Ci passa un flusso di pensieri e forse qualcosa ci si fermerà.
Lo apro perché intorno a me, piccolo e minuscolo essere umano, succedono cose paradossali, e mostruose. E a tutti sembrano normali. E succedono cose ovvie, pacifiche. E tutti danno di matto. E voglio capire perché.
Lo apro perché fra quelle pagliuzze, fra quei quasi-pensieri da raccogliere, da setacciare, ci sono perlopiù tracce, accenni. L'acqua stessa del fiume fa qui e là dei gorghi. Sotto la corsa incessante dell'acqua ci sono crepe, che mettono su grotte carsiche, su movimenti nascosti. L'umano, tormentato dalle rimozioni e forzato a credere nell'ideologia che si presenta sempre come realtà, forse prepara una riscossa dal fondo di ciò che non conosce ancora.
Lo apro (e va detto, in tutta onestà) perché sono disoccupato, frustrato ed iperscolarizzato. Ed in qualche modo dovrò pur passare il tempo.
Buona lettura.

Nessun commento:

Posta un commento