25/06/14

Penna e bicchiere



Di questi tempi non è difficile incontrare qualcuno che scrive. Se vivi in una grande città, il modo migliore per incontrare qualcuno che scrive è selezionare un quartiere centrale, in genere non troppo lontano dalla facoltà di lettere e filosofia, e passare al setaccio i bar. Senza troppa fatica, fra le dieci e l'una, si incontra almeno tre poeti, due romanzieri ed un filosofo.

Ora: se c'è un tropo abusato è l'ironia, quindi vi prego di capire che quando accenno all'abbondanza di letterati o presunti tali che popolano i bar, i pub, le bettole ed i luoghi di spaccio in generale non sto facendo dell'ironia. Eppure, scommetto, nel leggere le quattro righe che aprono questo pezzo avete pensato: ecco che parte anche il povero Difaul con la tirata contro gli hipsters, la gente con gli occhiali, la barba e velleità intellettuali.



Il luogo comune assai diffuso secondo il quale esiste una caratteristica chiamata "creatività", innata ed abbastanza rara, ed un'altra caratteristica chiamata "genio", anch'essa innata e rarissima, infatti, si mette in mezzo alle mie parole: basta dire ad esempio "è pieno di artisti da queste parti" perché nello spazio del non-detto si srotoli un sillogismo:

i "veri" poeti/artisti/filosofi sono molto rari
i filosofi/artisti/poeti da queste parti abbondano
i filosofi/artisti/poeti da queste parti non sono "veri" poeti/artisti/filosofi

Ora, non occorre quasi commentare questa formula: sostituisci a "da queste parti" il nome di un quartiere notoriamente popolato di vittime del proletariato cognitivo ed avrai un generatore di luoghi comuni che funziona sull'intero territorio nazionale.
Come ormai si sarà capito, qui su crepe l'intelligenza come fine ci interessa molto relativamente: in genere si parla invece di sorgenti della stupidità. Non bisogna cadere in errore: le due non sono in una relazione di mutua esclusione. Laddove infatti per essere intelligenti basta non essere ottusi, per non essere stupidi bisogna coltivare non solo l'intelligenza, ma anche la saggezza, l'empatia e la lucidità. Vi è una stupidità sobria, che consiste nella mancanza di saggezza/intelligenza/empatia, una stupidità intelligente, che consiste nella mancanza di lucidità/saggezza/empatia, e così via.

Intelligenza stupida

Particolarmente interessante dunque risulta dal nostro punto di vista capire come funzioni la creazione di stereotipi: contaminati dal modo di fare di linguisti cognitivi ed antropologi, ci daremo quindi alla raccolta di dati per ricavare una anatomia di quella specifica galassia dell'idiozia nostrana, cercando di non cadere nel luogo comune che vuole ritrarla come una mancanza, un vuoto, un'assenza, e trattandola invece con il dovuto rispetto: come un organismo quasi-biologico, una realtà antropologica che appare a volte con la coerenza e la consistenza di una organizzazione sociale stabile, a volte con l'aleatoria ossessionante ubiquità di un luogo comune.

orror vacui...
Torniamo al caso di oggi: una radice della convinzione che "creatività" e "genio" sono senza dubbio un prodotto del modo in cui si tende a concepire ed insegnare la storia culturale di questo paese. L'insegnamento della letteratura italiana (ma anche quello della storia dell'arte o del latino, del greco, della filosofia) è strutturato da una serie di nomi e opere "fondamentali". Alla vita di ognuno dei grandi autori si da un senso narrativo, ad ogni capolavoro si attribuisce il merito di aver cambiato (per sempre!) il modo di fare poesia/arte/filosofia.
Da nessuna parte compare il costante lavorìo dei cervelli distribuito in ogni dove: Baudelaire riassume in una figura titanica la Parigi del tardo diciannovesimo secolo, Manzoni/Leopardi/Carducci formano l'orizzonte di una "evoluzione", che dispone anch'essa in forma narrativa l'articolazione di una "corrente" con l'altra. Attraverso essi, non si arriva che ad intuire (ed occorre un buon professore) l'essenziale del ruolo che la parola poetica svolge. "Identità culturale", "Cultura umanistica" sono vuoti nomi, senza il riconoscimento di una necessità generale, interculturale, banalmente umana e dunque universale, della quale si parla pochissimo, e mai fuori di metafora.
Cosa resta a giustificare la specificità di termini come "poesia", "arte", "filosofia"? Nessuna accumulazione sembra possibile: nella traiettoria temporale che i programmi scolastici disegnano non vi è arricchimento, ma strattoni e novità che si cancellano l'una con l'altra, e tutt'al più lasciano dietro opere ammucchiate ed irripetibili, delle quali è chiarissimo il debito con il tempo storico che le circonda e con la personalità dietro alla penna che le traccia (ed è appunto questo ciò che le rende irripetibili) ma mai la varietà di usi locali, dispersi, magari anche fraintendimenti che da ognuno di questi pezzi si espande, rendendoli a buon diritto capolavori. La storia della letteratura (ancora una volta è bene specificare: la storia percepita della letteratura) è il passaggio di una fiaccola dalle mani di un titano alle mani di un altro, fino a quando l'eccessiva prossimità al momento attuale rende problematica la scelta di una figura titanica da ergere a simbolo e la fiamma sembra spegnersi.



Da nessuna parte si dice/scrive una vita possibile di quella letteratura, della letteratura storica, che deve essere tenuta da parte proprio per proteggerla dagli scempi del tempo. Non è sorprendente dunque che il modo di pensare l'attività creativa/letteraria debba per contrasto (ma è un contrasto che inscrive già la sua legge nel movimento interno della storia della letteratura per come è insegnata) inventare la sua propria eterogeneità.
Da qui la nozione di creatività: una caratteristica dell'individuo, che non ha a che fare con la sua formazione culturale né con quanto ha studiato, e nemmeno con lo sforzo incessante che gli è costata la produzione di un'idea. Si tratta della capacità prometeica di riaccendere la fiaccola, e che se richiede una misura di educazione/affinamento è proprio nella misura in cui tali attività sono necessarie a far uscire quello che era in effetti già dentro.




Sembra dunque che abbiamo fatto sul serio il giro: dalla critica del luogo comune contro gli artistoidi alla critica dell'autorappresentazione degli artistoidi, nient'altro che un passaggio di livello dal meno cerebrale al più cerebrale, per rimanere in sostanza allo stesso punto. E invece no: alla percezione della storia della letteratura/poesia/filosofia, ed alla reazione espressionista (lo faccio per esprimere quello che ho dentro...) si oppone una frangia resistentissima, incorruttibile, immensamente onesta e brutalmente acuta, il vero vaccino a tutti i generi di stupidità.
Dove? Che domanda assurda: per forza nei bar.



Nelle bettole, in quel sottobosco di spazi e tempi destinati a mungere gente "nel tempo libero" si distingue un certo numero di luoghi di ritrovo a bassa intensità emotiva, posti dove ci si rompe i coglioni sempre, eppure si è tutte le sere. Gli avventori bevono, ma senza entusiasmo, per arrivare allo stato di quiete annoiata e appesantimento che fa venire le parole. Nessuno si aspetta delle novità, eppure si è sempre tutti li. Ed inevitabilmente si parla. Di cosa? Di tutto. E preferibilmente non di lavoro.
Quindi del potere, della gente, di cultura, di filosofia, di arte, di media...
nello spazio rarefatto ed inutile, destinato ad accogliere un numero variabile di inutilità temporanee, gente che "perde tempo" al bar, si apre grazie all'infinita capacità di adattarsi dell'essere umano una delle vere e grandi possibilità dei nostri tempi. L'irrealismo, la capacità di pensare oltre l'orizzonte della condizione reale attuale, risorge e si lecca le profonde ferite inferte dall'onnipresenza della comunicazione commerciale e dalla propaganda politica. Ci si scambiano ironie, si fanno progetti velleitari, si scoprono affinità...



Il bar, del quale si è da tempo dimenticata la potenza (pensate ai caffé nell'inghilterra dell'illuminismo, alla parigi del 1840, a Vienna nel 1908...) funziona inosservato. Gli esseri umani dotati di antenne, quelli che sanno che il dentro emotivo non funziona come macchina estetica senza la galleria di specchi del fuori, vi si ritrovano sempre più spesso, ora che sono frustrati, iperscolarizzati, ignorati dalla rappresentazione politica della realtà.
Inascoltati, parlano. Invisibili, pensano. E non tutti loro hanno la barba, e non tutti loro scopano un sacco o fanno foto. Alcuni prendono la via ripida, riscoprono il passaggio a nord-ovest dall'arte alla vita vera. E le risorse spirituali che l'accademia non neutralizza più (a questo, in fondo, è sempre servita) si accumulano, crescono.

Si aprono crepe.

3 commenti:

  1. Ma no, la consapevolezza del bar come elemento-cardine è più radicata di quanto si pensi (perlomeno al di fuori del contesto scolastico).
    Racimolando qualche elemento che mi sovviene in testa al riguardo, se ne fa un uso specifico in Radiofreccia, Friends, How I met Your Mother, Bar Sport (e seguenti), Eravamo quattro amici al bar.

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  2. Certo il bar è un magnifico luogo in cui ambientare una narrazione, come provano le cose che citi. Però non capisco il "ma no": forse è riferito al fatto che nel post è scritto che "se ne è dimenticata la potenza". Nella mia testa, tuttavia, sono due cose diverse: da un lato il bar che integra la vita quotidiana, ospitando quel tanto di avventura, di confusione, di velleitarismo che non trova posto altrove (e diventa quindi un meraviglioso scenario per un racconto), dall'altro la possibilità che i quattro "amici al bar" escano dalla coazione a ripetere (alla fine della canzone nulla cambia, a parte la generazione di amici che vogliono cambiare il mondo, con quella marca di affettuoso dileggio per i rivoluzionari specificatamente italiana) e comincino a "fare sul serio". Ecco, quello c'è molto meno. In uno slogan: meno Roxy Bar e più Café Voltaire.

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  3. Sì, il " ma no" è riferito proprio a quella frase. Era proprio una risposta colloquiale in finale di battuta all'ultimo paragrafo.
    Io credo che in quelle storielle da me tirate in ballo ci sia ben più di un'ambientazione. Consapevole o meno, e qualsiasi sia il risultato delle interazioni dentro il bar, gli autori del/nell'immaginario collettivo hanno trovato nel luogo di ritrovo la chiave di volta del discutere, dell'ideare e del fallire.
    Il fallimento e la mancata attuazione, reali o meno, sono, per mia percezione, una variante peculiare di questo periodo nell'eventuale ripercorrere le orme che riporterebbero all'auge dei Cafe.
    Pensandoci, e facendo un passetto indietro, sono le stesse variabili negative presenti nella riproposizione di un altro atto formativo/creativo antecedente a quello dei caffè-salotti: quello dei Grand Tour, sminuiti seppur potenziati dai viaggi virtuali, dagli Erasmus e dalle vacanze a Roma per giapponesi.


    inb4 Valerio spotted

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