15/10/15

Più pensi, meno capisci

Più pensi e meno capisci.
Come quando ripeti una stessa parola centinaia di volte, e alla fine si arrotola su se stessa, polverizzata, flusso di suoni ininterrotto senza senso.

Eppure non è forse questo il meccanismo fondamentale del mantra, del rosario, del namasmarana? Il nome ripetuto. La cancellazione di senso, la riduzione a puro effetto. (E' essenziale che il nome sia sacro? O non diventa sacro dopo l'ennesima invocazione?)
Non è forse questo un nome? Un effetto dispiegato sul campo dei nomi propri, realtà reale che precede/eccede la rappresentazione?

Più pensi, meno capisci.
E allora, a che serve il pensiero? A crivellare i pensieri, che sono la sostanza del vivere.
E' un uso singolare quello che oppone il singolare al plurale per giocarli l'uno contro l'altro. Come l'idea che si gioca contro le idee singole, o La Filosofia che si sbrindella in filosofie plurali.
Non è mai un passo neutro, quello dal singolare al plurale.

Ma a che serve il pensiero? A farci più masticabili a noi stessi? E come finisce? Con una stretta di spalle, con un grido di giubilo (in ogni caso, l'espressione può essere sintetizzata in un "allora è così", o puttosto "era questo dunque..."). O non è invece uno sforzo produttivo? L'azione! grida qualcuno. Non se ne può fare a meno. Bisognerà essere "concreti". E' necessario.

E a cosa servirà l'azione? A crivellare la materia, a separarla, a polverizzarla fino a che i nomi a loro volta polverizzati possano raccoglierla, aderirvi, e riformare nel montaggio del desiderio sparso e delle forme indistinguibili una eco del pleroma originario? La cosa ha l'aria di un pio sogno.
Oppure servirà appunto l'azione a non dover pensare? Un colpo di spada, ed ecco il nodo in terra, in pezzi.

Nell'insicurezza, bisogna ricorrere alla rozzezza delle generalizzazioni, (Non potremmo nemmeno parlare senza evocare il fastidio di interlocutori. Non si può pensare en plein air, e anche l'interlocutore più cedevole, socratico, dichiaratamente pretestuoso diventa, se appena si è un po' più onesti, la sede di un contraltare inquisitorio.)

Insomma, cosa vuole questo pensiero? Abbiamo il coraggio di dichiarare almeno questo: che esso più che servire vuole da noi qualcosa, lo pretende? La chiamata, la vocazione, non ha nulla del soave e seducente canto angelico. E' la lagna del bimbo che pretende ripetendo con la pazienza più ossessiva, con l'urgenza più radicale, l'incomprensibile.

Si può forse addormentarlo, ripetendo all'infinito una stessa parola, o una serie ritmica di parole. Si può forse farlo tacere, raccontandogli una storia.

E' tutto? Basterà questo? La ripetizione incessante? Non c'è dunque alcuna verità nuova da enunciare? Nuovi orizzonti? Nuove crisi? Nulla su cui accapigliarsi?
No.
Non fa parte del nostro gioco, la polemica. E' solo una moda, e assai tarda, per giustificare l'editoria.

Va detto che il nostro è un gioco antico, e che è un gioco da codardi. In un mondo in pezzi, si tratta di giocare un gioco di collaborazione infinita. Ci si può trovare al tavolo con chiunque. La scelta "di parte", l'"onestà intellettuale", la "coerenza" si paga, in termini filosofici. E' un limite, un peso.
Ma nel gioco che giochiamo, vincere è considerato assai rozzo.

Pensare fino in fondo che cosa, se non la realtà? E come pensare la realtà fino in fondo, senza portarsela addosso, pensando?

Più pensi e meno capisci. Lascia indietro i concetti di guadagno e costo, quelli di vittoria e sconfitta, in un primo momento. Potrai riprenerli più tardi, quando avrai capito come tenerli da entrambi i lati, in un conteggio senza unità di misura, in una contesa senza contendenti.

Le tentazioni sono innumerevoli, metafore seducenti: la battaglia, il mercato, l'opera d'arte, l'architettura, la genealogia.
Non si può rifiutarne nessuna. L'unico peccato, nella singolare etica che determina la regola del pensiero, e cedere ad una soltanto, prendendola troppo sul serio.
Come precauzione preliminare, sarebbe ancora meglio mischiarle: pensiero come contrabbando, come artificio incestuoso, come critica artistica, come sabotaggio strutturale.

Più pensi e meno capisci. C'è un godimento singolare in questo. Uno sfondamento. Il pensiero è una forma di disattivazione del corpo: per quale motivo? Non solo per la banale immobilità dello studio, o il manieristico abbandono della posa pensosa, ma per una certa attitudine.

E' necessario procedere, in un punto cruciale, a corpo morto. Farsi terreno, e non passeggiatore. Atmosfera, piuttosto che volatore. Attendere passivamente che un daimon di passaggio sferri il colpo.
Ci sarà tempo, poi, per definire una critica traumatica o una idraulica degli spruzzi di sangue, una distinzione capillare dell'ematoma o una stratificazione epidermica interessata.

L'essenziale, si fa di colpo, o meglio è fatto di colpo.
Il bimbo che urla, una volta grande, ricorderà forse il frammento di una storia. Si può dire che è quello lo scopo?

Manco per il cazzo.
Piangendo non mi faceva dormire.

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