23/01/17

Olè

Io non lo capivo. Non riuscivo proprio a capirlo.
C'è un piccolo spagnolo imbrillantinato, vestito con eleganza barocca, eccessiva, piena di fioriture dorate.
Dall'altra parte, il Toro: un bestione di seicento chili, nero come il carbone, la personificazione della rabbia.
Dovrebbe essere ovvio, no? Il piccolo spagnolo è morto. Non ha scampo.
E invece no.

(Presta bene attenzione, ora. Se riesci a capire questo, ne trarrai molto giovamento).
Lasciamo da parte il discorso se sia giusto o ingiusto, leale o sleale ammazzare un toro che non ha deliberato né scelto il duello. So che alcuni di voi provano disgusto, ma non è questo che mi interessa.
Consideriamo la cosa analiticamente, con in mente solo un interrogativo, ovvio. Quello intorno al quale l'intera tauromachia è costruita, e che in fondo costituisce il motivo per cui si cominciò e si continua a celebrarla (fino a quando altri motivi e ragioni non ne determineranno la fine)

L'interrogativo è semplice: perché il torero è ancora vivo? Ha una spada, certo. Ma il toro è un gigante, una forza della natura.
(Per dire, la prima volta che ho visto da vicino una mucca - una mucca, perdio! - mi sono spaventato)
La risposta, per quanto incredibile, è nella grammatica.

Il toro, ogni toro che abbia mai combattuto, combatte per la prima volta. Ogni toro è un principiante assoluto. Questo è fondamentale.
Un toro che per fortuna o malasorte sia sopravvissuto al combattimento deve essere abbattuto. Ogni conoscitore della corrida lo sa. Ogni torello che sia stato usato per la pratica non potrà mai combattere.

La corrida è un rituale dell'intelligenza, prima che della violenza o della forza.
Il toro entra con i suoi seicento chili di muscoli, le sue corna acuminate, il suo assoluto sconcerto e terrore. Entra in un luogo sconosciuto, accolto da un clamore oceanico, incomprensibile. Viene subito accolto da un'aggressione immotivata, crudele. Una picca dalla spessa lama triangolare gli si pianta nel collo una, due volte. Il toro reagisce, cerca di allontanare o ferire il cavaliere che lo tormenta. Sanguina. le ferite lo tormentano. Sta per cedere. Ecco che si fanno avanti altri, altre figure danzanti, che lo raggiungono con punture più lievi, ma fastidiose, due a due, uncini che si conficcano nella carne per restarvi appesi. Il toro capisce che non lo lasceranno stare, che è il momento di combattere o morire. Raccoglie le sue forze e si lancia in avanti, ancora e ancora. Ma le gambe cominciano a dolere. La stanchezza si fa sentire. A differenza del cavallo, il toro è veloce, temibile nella carica, ma l'immensa energia necessaria a lanciarsi lo sfianca velocemente.
Il piccolo spagnolo lo provoca con un drappo. Il toro si lancia, e si lancia ancora, indomabile, e ogni volta colpisce solo aria. Lentamente, la testa si abbassa. I muscoli del collo, feriti dalla picca e sanguinanti, cedono. La carica è sempre più corta.
Infine, dal nulla emerge una spada. Il toro nemmeno la vede: esausto, carica ancora. E stavolta una puntura gelida penetra fino alle scapole, spacca il cuore.

Il toro non sa. Non conosce il rituale. Non sa che sarà aggredito, o come. Non immagina.
Il torero, invece, si.
Il torero sa ogni cosa. Conosce l'uso della vara de picar e il senso di ogni puyazo. Sa riconoscere un toro stanco da uno fresco, uno focoso da uno timido. Ha già danzato la danza, e prima ancora l'ha studiata. Sa che il toro per prima cosa girerà in tondo, nell'arena. Sa che abbasserà la testa. Sa come provocarlo. Sa come piantare la stoccata.
Il toro non sa. Il torero invece si.
Il toro è morto. Il torero è vivo.

Ecco, in breve, il segreto. Ma ecco anche un'ammonizione: mai far combattere il toro due volte. Perché il vantaggio dell'intelligenza è sempre fra i più fragili e delicati, e basta un nonnulla a disperderlo.
Se il toro sopravvivesse, come talvolta è successo, e gli fosse permesso rientrare nell'arena, saprebbe bene dove e come colpire. Memore, non lascerebbe che la sua rabbia fosse provocata, coltivata, direzionata e infine usata contro di lui. Non darebbe alcuno spazio all'eleganza di un intelletto assoluto contro la forza bruta.
No.
Il toro caricherebbe dritto, per poi svirgolare all'ultimo momento, a destra o a sinistra. Trafiggerebbe il torero nel bel mezzo della prima veronica. E poi andrebbe avanti, a destra e a sinistra, a sbudellare i poveri cristi accorsi al salvataggio.
In un attimo, ecco il gioco tornare pari: ognuno di fronte all'inaspettato, e di nuovo un piccolo spagnolo, non un semidio, e un toro di seicento chili, non una vittima sacrificale.
Il torero è morto. Il toro è vivo.

Perché abbiamo raccontato tutto ciò?
evidentemente, per farne una metafora.
Pensa a quello che una volta chiamavamo "il popolo". Pensa a tutti noi. E ora pensa alla meravigliosa muleta il technicolor che ogni giorno ci si sventaglia davanti agli occhi.
Quanto velocemente gli eventi si inseguono? Ogni quanto ci troviamo davanti all'inaudito?
Che cos'è una crisi economica?
I colpi di lancia e di arpone si susseguono. Il popolo, bestia instupidita, ha il sangue agli occhi. Carica e carica, convinta di trovarsi di fronte il suo nemico. 
Eccoli! L'isis! Eccoli! I ladri! Eccoli! I clandestini!
Sempre più stanchi, sempre più cinici, sempre più rabbiosi, ci buttiamo in avanti, incapaci di riconoscere il nemico. Quel piccolo spagnolo imbrillantinato che aspetta, con una spada nascosta dietro la schiena.
Quel piccolo spagnolo che, appena vedrà cadere la testa, appena scorgerà i segni ben noti della prostrazione, infilerà ben in fondo la sua spada. Eccolo, che già pregusta.
Lui conosce i tercios: la crisi, il fascismo, la ripresa. Farà comunque dei soldi. Sangue sarà versato, una generazione darà il passo ad un altra, e daccapo. Un nuovo popolo riempirà l'arena, che siano i più giovani o i nuovi arrivati. Farà un bel giro intorno, per capire come se ne esce, e capirà che non si può. Poi, arrivano i primi colpi.

Io non riuscivo a capirlo, proprio non lo capivo.
Da una parte, qualche vecchio bianco pieno di numeri ed equazioni, con in mano una grossa cappa di cavi e schermi, e centinaia di aiutanti a cavallo o a piedi. Dall'altra, l'esercito innumerabile degli sfruttati. In piedi alle sei di mattina o sdraiati dalla depressione. Incazzati. Delusi. Disorientati. Colpiti, e colpiti, e colpiti ancora. Eccoli che si lanciano ma mancano sempre il bersaglio. Sempre più vicini all'inevitabile.
Io non lo capivo. Di certo quei quattro miliardari sono morti, o lo saranno presto.

E invece no. Il teorema del torero li conforta e li guida. Essi conoscono la grammatica! Sanno danzare con la tua frustrazione, dirigerla e spronarla, deluderla e punzecchiarla ancora. E tu balli, volente o nolente, sui loro passi. Loro li conoscono meglio di te.

Il capitale è vivo, il popolo è morto. Dissociato in milioni di individui alienati, dimentichi di ogni coscienza, impegnati ad agire secondo i calcoli altrui (Just do it!).

Eppure, eppure. Basterebbe un po' di memoria, ecco. Nessuna scoperta. Che il gioco è sempre lo stesso, e basta mezz'ora a impararlo, per quanto intercontinentali e complesse siano le veronicas.
E poi non ti fregano, non ti fregano più. Poi si è di nuovo milioni a uno.
E forse allora si vedrà una carica storta, un guizzo di coscienza, una sorpresa terribile. E forse, e forse allora si potrà dire:

Il capitale è morto. Il popolo è vivo.

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