Quando ho aperto questo blog, non pensavo che avrei parlato di libri. Anzi, avevo espressamente deciso che non avrei parlato di libri. Né di musica, di politica, di fenomeni di costume, di moda, di economia.
Tutti questi paletti, che mi ero posto un po' coscientemente e un po' no, servivano a costruire la possibilità di un discorso ulteriore: l'idea era che le crepe di cui avrei voluto occuparmi non sono da cercare nella letteratura, nelle spigolature simboliche giornalistiche, nella espressione artistica. In preda ad un pregiudizio un po' marxista, mi ero persuaso che l'essenziale tende a sfuggire alla rappresentazione, e tutti quei casi in cui una cornice definisce il bordo esterno di un oggetto culturale sono già, per loro natura, casi di neutralizzazione dell'essenziale. Proprio per questo si devono cercare le crepe: perché una volta prodotta una rappresentazione della realtà da essa rimane escluso proprio ciò che la rende possibile, lo spazio fra l'occhio e l'oggetto. Ed è lì che c'è una crepa. Cercarla, per renderla una faglia attiva, è fra le altre cose un esercizio di spersonalizzazione, una teoria del dubbio e della crisi che non porta al pensiero debole, ma a riconoscere come germe del pensiero la forza di una componente impensata-impensabile.
Da ciò, il particolare stile contorsionistico che anima crepe, il tentativo di guardarsi di profilo che mi costringe a queste considerazioni continue di stile, che continuano a coinvolgere me, soggetto teorizzante, nella portata della teoria, e che producono discorsi ondivaghi, basculanti. Se mi si permette una metafora: rileggendomi, mi sembra di stare assistendo allo srotolarsi sulla pagina di un discorso che aveva una sua coerenza circolare proprio perché rimaneva arrotolato su se stesso, e solo fino a quando tale fosse rimasto.
A dispetto di tutto ciò, coltivando la serena abitudine di tradirsi sempre, oggi parliamo di un libro.
La società dello spettacolo è un libro. Un libro di Guy Debord, pubblicato a Parigi dalle edizioni Buchet-Castel nel novembre del 1967 e reso famoso dai moti del '68.
Si tratta di un libro particolare, inestricabilmente coinvolto in un atteggiamento intellettuale, politico, diagnostico ed artistico che al giorno d'oggi risulta difficile persino da pensare. Si tratta dello sguardo più acido e penetrante sulla metamorfosi in atto - allora, oggi può dirsi compiuta - della società e del regime di pratiche simboliche che ci permette di definirla tale. Si tratta anche di una lettura che produce, a distanza di quasi mezzo secolo, un effetto paradossale.
Il lettore odierno di Debord non può permettersi il lusso di derubricare le sue parole, né di metterle in dubbio: vive con maggiore consapevolezza ed intensità dell'autore la realtà descritta. Non impara nulla, si limita a riconoscere quelle idee che ha di necessità sviluppato o assorbito in forma meno esatta. Eppure rimane colpito: quello che è oggi normale, evidente, pacifica realtà rimbalza sulla pagina di Debord sotto il segno del nemico. Tutto quello che viviamo, pensiamo, desideriamo, e il modo in cui articoliamo ciascuna di queste attività e l'una sull'altra, risulta parte di una torsione, di una tensione perfettamente integrata nello spettacolo. L'unica vera scoperta è che si tratta di una trappola: sapevamo di starci dentro, ma non avevamo realizzato, fino a questo momento, di essere prigionieri. La finezza, dice Debord, è esattamente questa, l'inversione costante e paradossale delle realtà basilari dell'esistenza. Questa è l'arte del nemico.
A partire dalla Società dello spettacolo diventa finalmente comprensibile, anzi persino ovvia, quella particolare caratteristica della merce nell'età contemporanea, ovvero la sua natura intrinsecamente simbolica. Il feticismo della merce conosce nuove vette: la merce, la cui natura è ormai compiutamente simbolica, vale più per ciò che significa che per l'uso che può farsene. Anzi, la cosa è persino più complicata, dal momento che la componente dell'uso viene assorbita da un uso simbolico.
Banalmente ciò significa che nella società dello spettacolo la merce serve a definire ruoli sociali, viene investita di significati molteplici: si vende tanto la ribellione quanto la simpatia, la seduzione, la libertà eccetera.
Le conseguenze sono molteplici:
1) il capitalismo spettacolare non è un contenuto, ma una forma. Non agisce imponendo una narrazione, una serie di regole o valori, quanto trasformando il vocabolario. Puoi ancora essere ciò che vuoi, esprimere ciò che vuoi, solo che ora dovrai farlo passando di necessità dalla merce - ciò crea alcuni effetti collaterali e residui, quando la ribellione alla merce si trova a dover passare essa stessa attraverso la merce.
2) Per essere accettato, il capitalismo come regime di senso deve sabotare tutti i regimi di senso concorrenti. Non lo preoccupa la critica: sa che non c'è critica teorica che possa scalfire un regime di pratiche. Lo preoccupano i regimi alternativi e funzionali di pratiche. Verso di essi, egli agisce - meraviglie dell'inversione e del paradosso - con un'aggressività totale, che si manifesta come entusiasmo. L'incarnazione del capitalismo, la sua ipostasi meglio rappresentata, è il manager che arriva dal giovane artista ribelle, e gli comunica con le stelline negli occhi che lui, l'artista, è una grande star, e che è assolutamente necessario farlo conoscere al grande pubblico. La vittoria del capitalismo sui regimi di senso concorrenti assume sempre la forma di una vittoria di tali regimi di senso nel contesto del capitalismo.
Non ti aspettare, quando parli con chi detiene il potere, di dover affrontare una serie di menzogne. Le menzogne sono roba rozza, superata. Invece, preparati a cambiamenti repentini di frame, a seduzioni, a vittorie ben congegnate per ridurti all'impotenza, ad opposizioni retoriche fittizie. Come dice il Batman di Nolan, uno dei più bei pezzi di propaganda della società industriale avanzata: o muori da eroe - e gli lasci l'agio di fare quello che vogliono con la tua immagine, come il Che sulle magliette - oppure vivi tanto a lungo da diventare il nemico.
Per questo esiste Crepe, per individuare uno spazio di pericolo ed instabilità fra l'insoddisfazione e l'euforia, fra il fallimento e l'autodistruzione. Una forma di vittoria sconosciuta persino al pensiero penetrante ed acido del compagno Debord.
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